sangue di san Gennaro, Il
A Pasqualino, perché aveva sei anni e ogni mattina portava giù l`immondizia, al pescatore monco, perché ammansiva il mare, a santo Strato, perché proteggeva il palazzo e i malati: a loro Màrai dedica il suo "romanzo napoletano", ambientato nella città dove visse dal `48 al `52, prima di partire per gli Stati Uniti. A formare il vasto coro, lacero e sgargiante, che commenta la vicenda intorno a cui è costruito il libro sono gli uomini, le donne e i bambini della città, con la loro miseria, il loro lerciume, la loro fatica di vivere e il loro orgoglio ancestrale di aristocratici; e le interminabili chiacchiere, le liti che scoppiano furibonde, teatrali, ritualizzate, da una finestra all`altra, i lutti non meno teatrali e urlati, i santi arcigni e polverosi dentro le teche di vetro - con la loro umanità piagata e ghignante. Un intero popolo che, fra tutte le possibilità, crede che "la più verosimile" sia il miracolo. Un giorno, dalle parti di Capo Posillipo, vanno ad abitare due stranieri, un uomo e una donna (inglesi? polacchi?): displaced persons, così li definiscono le autorità, profughi. Anche loro, almeno per un po`, crederanno che lì possa avvenire il miracolo. Ma durante una violenta tromba d`aria si verificherà un evento che avrà il senso di una delusione assoluta, di una sconfitta inappellabile, poiché sancirà l`impossibilità di credere che ci sia un futuro per chi, in quanto esule, ha perso la propria identità.